Se il “counseling” è uno strumento importante nel rapporto tra medico e paziente per instaurare una relazione professionale, etica e umana empatica, non meno importante è l’atteggiamento del paziente nei confronti del processo di cura. Spesso, la malattia e la sua diagnosi possono, infatti, confondere l’assistito e generare malessere in lui: è per questo motivo che l’approccio migliore alla malattia sarebbe quello “non oppositivo”, orientato alla massima adesione al trattamento. I timori del paziente possono essere molteplici: questi investono tutta la sua realtà e affettività, incidendo nella totalità della sua esistenza. Di conseguenza, se a volte gli accertamenti diagnostici vengono percepiti come una minaccia alla sua libertà ed esistenza, la priorità della cura e un atteggiamento positivo si rivelano gli ingredienti fondamentali per poter debellare la cosiddetta “reattanza psicologica” da parte dell’assistito.
In primo luogo, tra i primi fattori che rappresentano una spinta motivazionale alla terapia, vi è “l’aderenza terapeutica”, ovvero la misura in cui il paziente segue le indicazioni e raccomandazioni del proprio medico circa il percorso terapeutico e l’assunzione di farmaci. Tuttavia, alla base di un’inadeguata adesione alla terapia, ovvero di una scarsa aderenza terapeutica, che comporta l’annullamento di efficacia degli esiti clinici, può figurarsi (alcune volte) l’intenzionalità del paziente, il quale sceglie o meno di attenersi al regime terapeutico.
Al riguardo, oltre a un rapporto attivo e fiducioso tra medico e paziente, è stato notato come i controlli periodici di verifica dello stato di salute dell’assistito agevolino la sua aderenza al trattamento, in quanto il paziente non si sente solo, ma coinvolto nel percorso diagnostico e affiancato giornalmente dal personale sanitario. Allo stesso tempo, ultimamente sono stati sviluppati nuovi sistemi di auto-monitoraggio e strumenti di auto-gestione che permettono al paziente di avere maggiore padronanza di sé stesso e di “motivarlo” all’aderenza della terapia prescritta. Le cose si complicano ulteriormente con l’avanzare dell’età, quando le cronicità, le cormobilità e le complicanze cliniche si moltiplicano.
Anche in questo caso, il sistema sanitario ha attivato interventi di educazione terapeutica a distanza, nonché sistemi di monitoraggio elettronico che ricordano al paziente di prendere le medicine a una precisa ora, permettendo di ridurre drasticamente i rischi sanitari, per esempio il sovra-dosaggio o sotto-dosaggio, la sospensione precoce delle terapie antibiotiche o, più in generale, la riacutizzazione di patologie infiammatorie. Analogamente, sono stati studiati altre opzioni di supporto che agevolano la continuità terapeutica da parte dell’assistito più anziano.
Bisogna combattere il fenomeno preoccupante della non aderenza e pensare a nuovi modelli di promozione di supporto del paziente, specie quelli più deboli, fragili e debilitati, tramite campagne e interventi educativi che possano contrastare la mancata aderenza e ridurre i decessi. Tuttavia, rimane chiaro che una parte consistente per il miglioramento delle condizioni croniche è basata, in primis, sulla gestione autonoma della malattia da parte del paziente, sempre affiancata dal sostegno da parte dei medici e dei familiari e dei caregivers.
Tuttavia, ancor prima di questo, all’assistito deve essere chiaro che i benefici a lungo termine dipendono fortemente dall’aderenza alle prescrizioni dei farmaci. In altre parole, l’aderenza terapeutica poggia inevitabilmente sull’individualità del paziente: non si può parlare di cura senza presupporre la partecipazione attiva da parte del paziente al suo processo.